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Tags: teologia del processo e del divenire
Nuovo articolo su Radio Spada

di Alberto Di Janni


Padre Giovanni Scalese (Querculanus) in un suo acuto commento ha analizzato i quattro principi che Francesco stesso presenta come criteri generali di interpretazione e valutazione, concentrandosi in particolare sul primo (“Il tempo è superiore allo spazio”), in quanto particolarmente caro a Bergoglio.
Vorrei qui soffermarmi su un aspetto strettamente interconnesso con questo primo principio, cioè con il concetto di processo, trattato anche, seppure in un’ottica diversa, da don Giulio Meiattini, in un articolo riportato da Sandro Magister.
Vediamo innanzitutto le parole stesse del Papa. L’affermazione maggiormente rivelatrice si trova nell’intervista rilasciata a mons. Spadaro (La Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013, p. 468, grassetti miei):

“Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, piú che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia”.

Il concetto di processo, specie legato all’opposizione spazio – tempo, risuona nelle parole e negli scritti di Francesco come un vero e proprio ritornello, usato a proposito e a sproposito. Solo per citare i suoi documenti più noti, lo ritroviamo in Evangelii gaudium (dove, al n. 227, introduce la necessità di “sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”); in Lumen fidei (per esempio, al n. 57, come corollario all’affermazione che “Il tempo è sempre superiore allo spazio”, in Laudato si’, in Amoris laetitia (dove inoltre è il matrimonio a essere definito, al n. 122, “un processo dinamico, che avanza gradualmente”).

L’affermazione più dirompente rimane però quella dell’intervista a Spadaro riportata sopra: “Dio si trova nel tempo, nei processi in corso”.

Questo ci rimanda immediatamente al principio cardine della cosiddetta teologia del processo o teologia processuale, una teologia chiaramente non cattolica e inconciliabile con il cristianesimo, come argomentato anche da diversi studiosi protestanti. La teologia del processo deriva dal pensiero del matematico e filosofo britannico Alfred North Whitehead (1861-1947), che parte da un ben preciso assioma: l’abbandono della nozione, che risale a Parmenide e a Platone, che ciò che meno cambia è più reale, per vedere l’essenza della realtà nella successione degli eventi, riallacciandosi così a Eraclito; si tratta, detto in altri termini, del primato del divenire sull’essere (ossia lo stesso principio filosofico che Padre Scalese, nell’articolo indicato sopra, individua alla base del primo postulato di Bergoglio).

Questa base filosofica porta a una nuova concezione di Dio, visto anch’egli coinvolto nel processo, di cui Whitehead sottolinea la duplice natura, la bipolarità: Dio ha contemporaneamente una natura primordiale, in quanto in qualche modo all’origine della totalità degli oggetti, che contiene in sé, e una natura conseguente, perché a sua volta influenzato dalle esperienze e dal divenire di tutte le altre entità.

Il pensiero di Whitehead, anche attraverso la mediazione di un altro filosofo del processo quale Hartshorne, è ripreso e sviluppato da alcuni teologi, in primo luogo John Cobb, che individuano il suo apporto principale proprio nell’approfondimento teorico sulla natura di Dio e che inoltre ritengono che questo approccio si presti particolarmente bene a uno sviluppo ecologico, assumendo e orientando in tale direzione i criteri degli evoluzionisti. D’altronde una teologia che vede un’interazione così forte tra Dio e mondo da considerare quest’ultimo come corpo di Dio, e che sostiene che tutto quanto accade nell’universo influisce su Dio, trova uno sbocco naturale nell’ecologismo.

I suoi stessi sostenitori ammettono un sincretismo marcatamente interreligioso, dicendo che, nata e sviluppatasi inizialmente come una appropriazione cristiana del pensiero di Whitehead, la teologia processuale ha allargato il suo raggio d’interesse anche ad altre religioni, così che in futuro può darsi non sia così fortemente connessa alla tradizione cristiana. Diventa così sempre più evidente che non si considera più soltanto una corrente nell’ambito della teologia cristiana, ma ambisce a un ruolo più ampio, collocandosi tra, se non sopra, le varie tradizioni religiose. Sintetizzando: una sorta di teismo di sapore massonico.
La teologia del processo guarda favorevolmente alle relazioni omosessuali e alla teoria del gender, basandosi sul principio che sia l’anima che il corpo sono continuamente forgiati dalle relazioni esterne e che l’identità personale è dinamica.

Tutto questo suona tanto poco cristiano quanto pericolosamente prossimo al pensiero di Francesco. Ma c’è ancora di più: una piccola parola, densa di significati, che mi pare sia sfuggita a tutti i commentatori di Bergoglio: bipolare.
In Evangelii gaudium, al n. 221, introducendo i quattro famosi principi, Francesco afferma che sono “relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale”; e al n. 222, introducendo il postulato del tempo superiore allo spazio, scrive: “Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite”. Espressione che ritorna al n. 231, per sostenere che la realtà è più importante dell’idea: “Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà”.

La bipolarità, ancor più della nozione di processo (termine in fondo assai vago di per sé) è la vera nota caratterizzante la teologia processuale: Hartshorne stesso si definiva “teista bipolare”, oltre che panenteista (termine “teologicamente corretto” che mira a rendere più presentabile il panteismo). Ogni dualismo, per esempio quello tra anima e corpo, è trasformato in bipolarità, così che quanto prima sembrava contrapposto si sviluppa in relazione reciprocamente arricchente.
Vediamo, comparandola con la dottrina cristiana, cosa comporta questa bipolarità, che per i teologi del processo va applicata specialmente a Dio, e che Bergoglio, per ora, ha esplicitamente applicato “solo” a tutte le realtà sociali e alle tensioni tra pienezza e limite e tra idea e realtà (ma se “Dio si trova nel tempo, nei processi in corso”, il passo per giungere anche a un Dio bipolare non è poi così lungo).

Innanzitutto per il pensiero cristiano classico (indicando con questo termine quanto non è solo cattolico, ma condiviso dalla tradizione ortodossa e proprio anche del protestantesimo classico, almeno per quanto individuabile nelle varie professioni di fede delle chiese della riforma) Dio è assolutamente necessario, mentre per il pensiero processuale Dio è contemporaneamente necessario e contingente, nella sua bipolarità. Nel primo caso si sostiene che, dipendendo le creature da Dio, la relazione ha effetto su di loro e non su Dio; la teologia processuale afferma invece la bidirezionalità di questa relazione, che viene così a incidere anche su Dio. Dio ha natura primordiale in quanto all’origine di tutto ciò che esiste, ed è quindi necessario, ma ha nel contempo natura conseguente in quanto a sua volta influenzato dal divenire delle altre entità, ed è quindi contingente.

Per il pensiero cristiano classico Dio è assoluto, mentre la teologia processuale rifiuta questo attributo divino. Il concetto di assolutezza del pensiero classico non nega la presenza di relazioni all’interno del Dio trinitario e neanche tra Dio e le creature, ma nega che questo significhi relativizzare Dio: nel caso delle relazioni ad intra perché queste sono costitutive della sua stessa essenza; nel caso di quelle ad extra perché hanno origine dalla creazione come atto libero e non da un’emanazione, evidenziando così la trascendenza divina. Il pensiero processuale vede invece Dio connesso alle altre entità con la stessa essenzialità delle relazioni intratrinitarie; e data la non assolutezza di queste entità ne viene compromessa anche l’assolutezza di Dio. In un certo senso non è totalmente negata l’assolutezza divina ma, così come Dio in quanto bipolare è visto essere contemporaneamente necessario e contingente, in modo analogo è allo stesso tempo concepibile come assoluto e relativo.

Per il pensiero classico Dio è atto puro, mentre per quello processuale è essenzialmente potenza: anche Dio è in divenire, non tutta la sua potenzialità si è realizzata. Strettamente connesso a questo punto c’è l’opposizione tra immutabilità e mutabilità di Dio. Per il pensiero classico Dio è immutabile perché non è soggetto al tempo; per la teologia del processo Dio si arricchisce continuamente condividendo le esperienze di tutte le entità. Proprio l’atemporalità di Dio è un altro elemento di differenza: per la teologia del processo anche la vita di Dio è successione di momenti di esperienza; non è concepibile che un Dio che entra in relazione con degli esseri temporali sia collocato fuori del tempo. Di conseguenza anche l’eternità di Dio, almeno se intesa nella pienezza del suo significato, è generalmente negata: non essendo Dio atemporale, è soggetto al tempo, che quindi in certo qual senso lo trascende.

Anche la perfezione assoluta di Dio predicata dalla concezione classica viene rifiutata: non essendo Dio immutabile, ed essendo in divenire, la sua perfezione è in continua crescita, momento per momento, senza mai raggiungere l’assolutezza. Dio non è, né sarà mai, totalmente perfetto, pur essendolo più di ogni altra entità e pur tendendo asintoticamente a questa totalità.

Un’altra caratteristica tradizionale di Dio è la semplicità: Dio non è un essere composito. La teologia processuale respinge anche questo, anzi vede proprio nella complessità di Dio la sua ricchezza. La negazione della semplicità è strettamente connessa con quella dell’incorporeità di Dio: in modo più o meno radicale e più o meno letterale tutti i teologi del processo considerano il mondo come corpo di Dio. Il concetto di corporeità di Dio è secondo loro necessario, almeno in una sua versione moderata, per rendere conto del fatto che Dio abbia esperienza immediata del mondo e possa agire su di esso.
Il cristianesimo ha sempre sostenuto anche la creazione ex nihilo, come libero atto di volontà di Dio; come conseguenza Dio avrebbe potuto scegliere di non creare e nulla sarebbe esistito. La teologia processuale nega la creazione dal nulla e sostiene che non solo Dio, ma anche tutto quanto esiste sia necessario, sebbene non necessariamente nel modo in cui di fatto esiste. Mentre la teoria tradizionale dice che non esisteva qualcosa di altro da Dio, a partire da cui Dio avrebbe portato in essere il mondo, il pensiero processuale dice che Dio si è limitato a infondere una spinta interiore verso la realizzazione a una materia che già godeva di un’esistenza autonoma. D’altronde se si sostiene la corporeità di Dio in senso stretto – come fanno molti teologi del processo – ne segue forzatamente la necessarietà della materia. Si può a questo proposito notare come l’idea di una materia dotata di esistenza autonoma ab aeterno di fatto divinizza la materia, che viene ad avere in sé stessa la causa del proprio essere.

Un altro attributo di Dio che la teologia del processo rifiuta è l’onnipotenza. Per la dottrina classica la potentia absoluta di Dio si estende a tutto quanto non sia intrinsecamente impossibile. Il pensiero processuale invece limita il potere di Dio non solo legandolo alla consistenza logica, ma anche da un punto di vista metafisico, al fine di consentire un potere autonomo delle altre entità. Il fatto che il potere di Dio sia limitato, e che quindi l’universo possa evolvere in modo indipendente e per taluni versi contrario alla sua volontà, è utilizzato per dare una spiegazione dell’esistenza del male non facendone Dio il responsabile. L’antinomia che risale già a Epicuro fra onnipotenza e bontà di Dio, viene così risolta a favore della bontà: ma duemila anni di sforzi della teologia cristiana miravano a tenere insieme questi due aspetti apparentemente inconciliabili, non a pronunciarsi a favore di uno a discapito dell’altro.

Un altro aspetto è quello dell’escatologia, su cui ci sono idee differenziate anche all’interno della teologia del processo. Alcuni ritengono infatti sufficiente un concetto di immortalità oggettiva, cioè il fatto che un essere vivente venga assunto e ricordato nella memoria di Dio. Di fatto la concezione del mondo come corpo di Dio realizza già questa condizione e non solo per gli esseri viventi. Altri teologi sostengono anche la possibilità di un’immortalità soggettiva, con una partecipazione di tipo personale alla vita divina. Anche quest’ultima concezione si distanzia però notevolmente da quella tradizionale, per esempio in quanto si prevede una sorta di crescita sia intellettuale che fisica anche oltre la morte e in quanto è generalmente esclusa la definitività di questo stato, che spesso è visto solo come una sorta di compensazione temporanea per quelle vite che non hanno potuto svilupparsi nella loro pienezza sulla terra.

I seguaci della teologia del processo sostengono la necessità, e la possibilità, di una stretta integrazione tra scienza e religione. L’accento posto sul divenire, tanto da escludere la stessa immutabilità divina, si accorda bene con la teoria evoluzionista. Ciò porta al costituirsi di uno strano amalgama tra scienza e fede col rischio di una reciproca invasione di campo e di indebite applicazioni dei metodi di una disciplina nello studiare l’altra: così la scienza tende a diventare metafisica e la religione ipotesi costruita su dati esperienziali.

Consideriamo ora alcune critiche che possono essere mosse alla teologia processuale, specialmente per quanto concerne la sua compatibilità con il nucleo essenziale del cristianesimo.

In primo luogo la negazione dell’assolutezza divina porta a pensare che ci sia qualcos’altro superiore a Dio stesso, o almeno a quello che i teologi del processo chiamano Dio. Cobb, per esempio, sostiene che vi sono principi del processo che non mutano, rischiando quindi di assolutizzare un principio filosofico proprio mentre si relativizza la rivelazione. Inoltre alcuni teologi parlano di altre realtà che parrebbero godere di un’assolutezza maggiore che non Dio.

La struttura bipolare di Dio, a prescindere da ogni altra considerazione, appare difficilmente integrabile con il dato trinitario, rendendo quindi particolarmente problematica una trattazione adeguata di Cristo e dello Spirito. Quando Cristo e lo Spirito compaiono, hanno la parvenza di qualcosa di spurio, di cui non si comprende bene il collegamento con il Dio bipolare. Questo problema è particolarmente evidente nella cristologia. Se Dio è già da sempre incarnato nell’intero universo, che è il suo corpo, l’incarnazione di Cristo appare inutile e difficilmente spiegabile.

Nella teologia del processo manca la tensione tra già e non ancora, tra futuro intramondano e futuro escatologico; anche questo è conseguenza dell’appiattimento orizzontale della trascendenza divina. È ancor più chiaramente conseguenza dell’idea della corporeità di Dio: com’è possibile immaginare una trasformazione radicale di un mondo che è il corpo di Dio? "Cieli nuovi e terra nuova" che impatto avrebbero su Dio stesso? Come si può immaginare internamente a Dio la tensione tra un già e un non ancora? Anche se per la teologia processuale Dio diviene, questa è una successione di momenti, non una frattura cosmica. Soprattutto non è possibile distinguere tra il continuo mutare di Dio e una mutazione di diverso grado che avverrebbe per il mondo all’œscaton.

Perfino due valdesi considerano la teologia del processo  estranea al cristianesimo: “I teologi del processo si servono a piacimento dell’Evangelo di Gesù Cristo, usandolo e deformandolo per adattarlo al loro sistema concettuale e svuotandolo del suo contenuto autentico. […] Si percepisce qui un rovesciamento del rapporto uomo-Dio, in quanto non è più l’uomo che è creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma è Dio che viene assimilato e inglobato nella natura, costituendo insieme ad essa un oggetto unico che si pone per l’uomo come un dato di cui può disporre.” (E. Bein Ricco – G. Pons, Conoscenza scientifica e fede, p. 180.182). È indubbio che c’è un cambiamento di paradigma rispetto allo stesso protestantesimo: al centro non c’è più la Parola di Dio, pur interpretata in modo distorto, ma una specifica concezione del mondo e del suo evolvere; questa è la vera rivelazione di Dio, dove Dio diventa però un genitivo oggettivo.

Infine vorrei far notare come la teologia del processo non sia in realtà neppure una teologia, ma un metodo in teologia. Prova ne sia il suo essere applicata a religioni diverse e persino al di fuori dell’ambito religioso.

Sebbene Bergoglio non abbia, per il momento, fatte esplicitamente sue tutte le teorie della teologia processuale, appare però ad essa pericolosamente contiguo, condividendone i postulati di partenza e giungendo in molti casi a conclusioni consonanti: l’attenzione ecologica fine a sé stessa, il mondialismo, l’apertura a tutte le religioni non cristiane, il rifiuto di giudicare l’omosessualità che giunge fino alla comprensione, introdotta come suo solito in modo subliminale (vedansi alcune affermazioni di Amoris laetitia), per la teoria del gender.

Non sono in grado di valutare se questa consonanza sia conscia e voluta, oppure del tutto fortuita; non so neppure se Bergoglio conosca la teologia processuale; quello che però si può dire è che esiste una indubbia comunanza di accenti. Viene da chiedersi se tale comunanza non sia dettata da una qualche sfera superiore in grado di condizionare tanto la teologia del processo quanto Francesco.

Qualche riferimento bibliografico.
Per una presentazione della teologia del processo:

Cobb J. B., Jr. – Griffin D. R., Process theology. An introductory exposition, Westminster Press, Philadelphia, PA, 1976; in traduzione italiana, Teologia del processo, Queriniana, Brescia, 1978.
Cobb J. B., Jr. – Widick Scrhoeder W. (a cura), Process philosophy and social thought, Center for the Scientific Study of Religion, Chicago, IL, 1981.
McDaniel J. B. – Bowman D. (editors), Handbook of Process Theology, Chalice Press, St. Louis, MO, 2006.
Whitehead A. N., Process and reality. An essay in cosmology, Free Press, New York, 1978.
Testi critici sulla teologia del processo:
Anelli A., Processualità e definitività. La teologia a confronto con Whitehead, Cittadella, Assisi, 2004.
Bein Ricco E. – Pons G., Conoscenza scientifica e fede. Incontri e scontri fra saperi del nostro tempo, Claudiana, Torino, 1988.
Altri testi (generalmente critici) che trattano della teologia del processo:
Blaser K., Les Théologies nord-américaines, Labor et Fides, Genève, 1995.
Gounelle A., Le Christ et Jésus. Trois Christologies américaines: Tillich, Cobb et Altizer, Desclée, Paris, 1990.
Harrell D. M., Nature’s Witness. How Evolution Can Inspire Faith, Abingdon Press, Nashville, TN, 2008.
Santmire P., Nature Reborn. The Ecological and Cosmic Promise of Christian Theology, Fortress Press, Minneapolis, MN, 2000.
Southgate C., The Groaning of Creation. God, Evolution, and the Problem of Evil, Westminster John Knox Press, Louisville, KY, 2008.




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