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Pubblicato da in Articoli di Radio Spada ·
Tags: Aleppo
Nuovo articolo su Radio Spada
di Isidoro

di Sebastiano Caputo

Sapevo che la battaglia finale ad Aleppo  si sarebbe scatenata nel giro di pochi giorni. Ero stato a Damasco  poche settimane fa e già si parlava di questa offensiva conclusasi  proprio ieri sera. Avevo i contatti per andare lì, del resto ci sono già stato, ma due motivi mi hanno spinto a restarmene a casa: i costi del viaggio troppo elevati, e la paura di rimanere prigioniero della città qualora le cose si sarebbero messe male. Ora mi tocca leggere da Roma, quello che sta accadendo in quel Paese ferito da una guerra per procura entrata nel suo sesto anno.
Quanto è difficile starsene in panchina, soprattutto quando è la cattiva informazione  a farla da padrona. Insomma, è tutto il giorno che leggo articoli di  giornale e vedo servizi televisivi (nazionali e stranieri) sulla  conquista totale e definitiva di Aleppo da parte dell’esercito siriano. Non pensavo ci fossero in Italia così tanti sostenitori dei gruppi terroristici. O meglio, sapevo che c’era disinformazione tanto da aver raccontato la mia piccolissima esperienza di viaggio in un libro, ma non credevo si sarebbe arrivati a negare persino all’evidenza. Ma qui “negare l’evidenza” è diventata l’ultima frontiera dei commentatori di politica estera travestiti il “day after” da reporter di guerra. Non mi riferisco ai poveri stagisti sottopagati usciti dalle scuole di giornalismo e assunti per fare clickbaiting,  ma a quei “professionisti” che in cattiva fede offrono un racconto  personalistico e ideologico. Non farò nomi, non voglio creare polemiche,  ma vi invito a fare qualche ricerca su internet per capire di cosa sto  parlando.
Libera non libera, poco importa. Una città distrutta non è mai vincitrice.  Dobbiamo interrogarci su altro: come dobbiamo raccontare la battaglia  di Aleppo nel rispetto dei lettori? A quali fonti bisogna attingere?  Come distinguere una notizia falsa da una vera in un contesto di guerra  che vede la verità come prima degli sconfitti?
In primo luogo non è oggettivo riportare le informazioni pubblicate dai media arabi Al Arabiya e Al Jazeera, rispettivamente controllati da Arabia Saudita e Qatar, due Paesi coinvolti fin dall’inizio nel conflitto siriano. Lo stesso discorso potremmo farlo per Press Tv e Russia Today, controllati rispettivamente da Iran e Russia,  due Paesi militarmente attivi in Siria. Eppure a differenza dei primi,  questi hanno dei veri e propri inviati sul campo che seguono l’avanzata  dei militari, mentre gli altri citano fonti anonime e senza alcuna prova  fotografica o video. Vi diranno che sono “embedded”, che alcune cose  non potranno dirle o scriverle. Sicuramente è così, ma c’è molta  differenza tra una fonte diretta e una che si aggrappa al “sentito dire” di certi attivisti.
Veniamo ai media italiani.  Molti di noi giornalisti che andavano in Siria scortati dalle forze  governative venivamo accusati di essere gli agenti occidentali di Bashar  Al Assad mentre loro, i proprietari della Verità, hanno continuato per  anni a raccontare all’opinione pubblica, comodi in redazione, la  storiella dei ribelli moderati. Sapevano di mentire  perché mentre noi parlavamo con la gente del posto portando a casa  documenti autorevoli, interviste, fotografie e servizi, loro, dopo le  notizie dei rapimenti dei colleghi, non ci pensavano minimamente ad  andare in quelle zone “liberate” dai loro nuovi “eroi”. La verità è che  se entri in Siria come giornalista ti conviene andare con il  “cattivissimo” regime di Assad se no a casa non ci torni. E se riesci a  tornare indietro torni con un altro punto di vista, vedi Domenico Quirico.
Per  quanto mi riguarda mi ritengo un osservatore e non mi interessa se  verrò tacciato come filo-governativo. E sebbene Assad e Putin non mi  abbiano mai staccato un assegno, credo sia necessario dire le cose fino in fondo. Ricordo che ad aprile quando andai per la seconda volta in Siria, le facce dei soldati ai checkpoint di Damasco erano rilassate, tranquille, pulite, poi man mano che mi dirigevo verso Aleppo,  in un viaggio infinito e traumatico in automobile, queste diventavano  sempre più stanche, arrabbiate, sporche. Erano i segni della guerra  stampati sul volto di chi dorme poco la notte sdraiato accanto al  proprio kalashnikov. Mi trovavo nell’epicentro del  conflitto, nella città più contesa del Paese dove le linee del fronte  erano distanti qualche decina di metri. Ti trovavi in territorio  governativo, e magari la strada parallela o quella dopo, perpendicolare,  era controllata dai ribelli armati. Ad Aleppo ci sono i soldati più preparati ma anche quelli più burberi. Io non ho le prove  ma non ho dubbi che si siano commessi atti di violenza durante la  conquista della parte orientale, non ho dubbi che alcuni civili abbiano  pagato con la vita per aver ospitato guerriglieri a casa, oppure che  siano stati fucilati davanti ad altri per punirli e marcare di nuovo il  territorio. Sono tecniche di coercizione: se ne ammazza uno per educarne  cento. A noi ce lo hanno insegnato gli americani  bombardando intere città quando la guerra era finita da un pezzo.  “Abbiamo cacciato i tedeschi ma ora comandiamo noi”, questo era il  messaggio, o meglio l’avvertimento. Ora come si può raccontare la battaglia di Aleppo con categorie pacifiste? Ma  soprattutto come si può criminalizzare un intero esercito come fanno  tutti i mezzi d’informazione in queste ore? Qualora fosse vero ci siano  atti di ingiustizia come quelli citati sopra, è ancor più vero, date le  prove, che girano immagini con i militari siriani che vengono accolti in  festa nella parte orientale mentre altri distribuiscono coperte, cibo e  acqua. Ma questo non ve lo diranno mai perché la narrazione ufficiale  ha una funzione ben precisa: criminalizzare lo “zar” e il “dittatore”.  Potrei scrivere ancora tanto ma non mi dilungherò. Mi limito ad  invitare i lettori a non fidarsi mai di chi parla di un fatto senza  viverlo direttamente. E ai giornalisti che hanno un minimo di coraggio  dico: gli occhi sono l’ultima arma che abbiamo contro la mistificazione della realtà.




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